Il denominatore comune è sempre quello della profezia. Il modo in cui essa si declina è però molto diverso a seconda dei contesti ecclesiali. È l’esito inevitabile a cui si arriva in una cultura della sinodalità o, per usare un’espressione tipica di papa Francesco, dell’“unità” che rifiuta l’“uniformità”.

Nei suoi ultimi due viaggi apostolici, il Santo Padre, rivolgendosi ai vescovi, ai sacerdoti, ai diaconi, ai consacrati e ai seminaristi dei rispettivi Paesi visitati, ha usato metafore molto diverse. Nella Repubblica Democratica del Congo, ad esempio, ha evocato i demoni della “mediocrità spirituale”, della “comodità mondana” e della “superficialità”, che di certo infestano anche molte diocesi e parrocchie occidentali. Il primo degli antidoti indicati in quell’occasione è stato la “Celebrazione Eucaristia” intesa come “cuore pulsante della vita sacerdotale e religiosa”, assieme alla “Liturgia delle ore” e alla “Confessione”. Quando si parla di formazione sacerdotale, infatti, il Papa la intende come una “formazione permanente” e, in tal senso, non c’è nulla di più permanente di ciò che arriva dalla vita sacramentale.

In Sud Sudan, poi, papa Francesco ha indicato il profeta Mosè come esempio di “docilità” spirituale, senza la quale non è possibile alcuna “intercessione”. È questo il discrimine tra il “camminare in mezzo” che si addice ai pastori – chiamati a un contatto stretto, profondo e sincero con le loro pecore – e la “tentazione dell’individualismo” che non risparmia nessuno status laicale, sacerdotale o religioso.

Passando all’Ungheria, visitata poco meno di tre mesi più tardi, Bergoglio individua un pericolo diverso, verosimilmente più tipico delle chiese occidentali che non delle comunità dei Paesi di più recente evangelizzazione: il “disfattismo catastrofico”, che, in fin dei conti, è l’altra faccia della medaglia del “conformismo mondano”. Che un sacerdote viva in una diocesi metropolitana opulenta o, al contrario, in un luogo di missione dominato dalla miseria e pieno di incognite, la tentazione dello scoraggiamento – per ragioni diverse – è sempre in agguato. Scoraggiamento e mondanità vanno spesso a braccetto.

 Si dice spesso che Francesco “bastoni” troppo i sacerdoti, come se le sue esortazioni fossero di carattere personalizzato o riferite allo specifico di una comunità. Il Papa, in realtà, individua degli elementi critici e, nei contesti ecclesiali che visita, cerca soprattutto di prevenire i problemi.

Qual è allora la chiave della formazione sacerdotale per Francesco? La cosa potrà piacere o no ma il Pontefice argentino non indica la strada in nessuna scuola teologica definita, sebbene il suo metodo sia spiccatamente gesuita. Parliamo, però, per l’appunto, di metodo formativo, non di dottrina. Nelle dispute teologiche, in modo drastico, quasi ossessivo, il Santo Padre individua un veicolo di divisione, di ideologia, di potenziale sfogo di orgogli personali.

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Ciò non significa affatto che il papa deplori la teologia, quanto, piuttosto, che egli vuole porre anzitutto al centro del cammino formativo la comunione, intesa sia in senso umano sia divino, senza soluzione di continuità alcuna. Quando già all’inizio del suo ministero parlava di “pastori con l’odore delle pecore”, non si riferiva a una pura benevolenza umana: troppi sono, nel suo magistero, i riferimenti al Buon Pastore e al Buon Samaritano per indurre in equivoci.

Indubbiamente, l’elemento pastorale è preminente nel suo approccio formativo. L’aneddotica e l’esperienza sul campo prevalgono sui riferimenti dotti. Ciò può rappresentare un punto di forza e, al contempo, un rischio. Francesco sfida di più, sa che la tensione all’assoluto non può prescindere dal naturale disequilibrio della vita. Non usa toni consolatori o rassicuranti, al di là dei naturali riferimenti alla misericordia o a Dio che aspetta le sue creature per tutta la loro vita. È questo il centro del suo messaggio.

Oggi sembra proprio il momento di deporre l’ascia di guerra che ha segnato gran parte dei discorsi intorno a Francesco e cogliere, invece, il vero aspetto che può mettere d’accordo tutti e rappresentare il più robusto elemento di continuità con il suo predecessore: il cristianesimo è una persona, non una dottrina, e che questa persona richiede un incontro. Quest’ultimo assunto dovrebbe essere la pietra fondante di ogni formazione sacerdotale (o anche semplicemente e genericamente cattolica).

L.Ml.

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